No, l’umanità non è morta ieri in Siria. Deborah Dirani

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  Magari l’umanità fosse morta ieri in Siria mentre un bambino cercava di respirare quell’aria che lo ammazzava, mentre i suoi polmoni si ingolfavano di veleno, mentre sua madre cercava di proteggerlo e moriva senza fiato vicino a lui.

Magari fosse stato così, magari avessimo scoperto solo ieri la potenza della barbarie degli adulti che combattono guerre in cui vedranno morire i loro figli, guidati da altri adulti che le hanno dichiarate, preoccupandosi con largo anticipo di mettere al riparo i propri bambini.
No, l’umanità non è morta ieri in Siria. Molto banalmente ieri ha fatto rumore nel suo infinito agonizzare. Ieri ha rantolato, prima perdeva sangue da un buco che si apriva nella testa di un ragazzino che correva per andare a scuola e che veniva fulminato da un cecchino a Sarajevo. Nei mesi precedenti perdeva una mano e metà della faccia raccogliendo da terra uno strano giocattolo colorato che sembrava una farfalla con un’ala fratturata. Un giocattolo che gli esplodeva addosso e lo riduceva a una poltiglia di carne, sangue, moccio e lacrime.
L’umanità muore ogni giorno in ogni angolo del mondo in cui un adulto non si preoccupa della vita di un bambino. Muore quando una bambina di 8 anni viene venduta da sua madre a un uomo che la stuprerà per pochi dollari. Pochi per lui, tanti per la famiglia di quella bambina che perdendo il suo corpo assicura la sopravvivenza di quello di suo padre, sua madre e dei suoi fratelli.
L’umanità muore ogni giorno in cui un bambino viene strappato alla capanna di fango in cui vive e portato via, in mezzo a una giungla di cui non conosce i confini, imbottito di droga e armato di un mitra che pesa quanto lui. Muore ogni volta in cui a quel bambino verrà spiegato come si deve premere un grilletto per ammazzare un altro bambino come lui.
Muore ogni volta in cui un bambino non può dormire le ore che gli servono per riposare perché deve lavorare, perché non ha alternative al lavorare. Muore perché non va a scuola a imparare come si fa a rendere il mondo un posto abitato da esseri umani che si curano dei bambini, della loro salute, della loro felicità. Della loro vita.
Muore oggi nel Mediterraneo, morivano ieri nell’Atlantico. Chissà dove morirà domani.
Muore quando un bambino è costretto a scappare per cercare di salvarsi, per non finire con la faccia stracciata via da una bomba, da una mina, da un machete, da un proiettile.
Muore e soffoca ogni giorno in silenzio e le lacrime non servono a niente. Piangere per la strage di ieri non consentirà a nessun bambino di diventar grande domani. Quanti pianti disperati ho visto allargarsi sulle facce di chi ha dichiarato guerre che non ha combattuto. Quante lacrime grondanti ho osservato trovare spazio sulle guance di chi lavora per proteggere i bambini ma è impotente, frustrato, arrabbiato, davanti alla violenza degli adulti.
E allora, basta piangere.
Basta giocare a Risiko sulle schiene dei bambini, sui loro stomaci svuotati di cibo e pieni di fame. Basta usarli come manifesti di un pacifismo ipocrita e rassegnato. Basta usarli per scuotere coscienze che sono graniticamente convinte che i danni collaterali di una guerra siano inevitabili.
Perché, se ieri decine di bambini sono morti rantolando mentre l’aria avvelenava i loro polmoni, significa che il ricordo di quelli bruciati vivi 72 anni fa a Hiroshima e Nagasaki, con la pelle che si staccava a brandelli dai loro corpi che friggevano di calore, è disciolto in un’acida memoria collettiva. Perché se ieri gridavamo alla strage degli innocenti, accorgendoci che non ci bastano mani e piedi per contare le piccole vittime dell’adulta follia, oggi siamo la dimostrazione più lampante del fatto che l’umanità sta agonizzando come un malato terminale che ha bisogno di dosi sempre più massicce di morfina per tentare di aprire un occhio su ciò che resta del mondo.

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